Di 29 Nov 2022Altro

Il capitano Toti Lucido, figlio di pescatore, ci racconta l’emozione di una battuta di pesca, da adulto immerso nei ricordi di bambino. La gioia del ricordo, l’ansia che preced i momenti in sui si salpa la rete, la felicità della battuta di pesca quando la pesca è ricca ed inaspettata. Di seguito il racconto di una battuta di pesca di aragoste nelle parole dello stesso pescatore in barca con il padre Peppino Lucido (nelle foto).

Frammenti di vita e di mare a caccia di aragoste (parte I)

parte II

Nella sua veranda, chiusa dalla grande vetrata, adiacente la stanza da pranzo, aveva sperimentato negli anni varie tecniche di armamento e poi era stato il mare a darne il verdetto supremo, un pescatore professionista come lui si accorge subito se le innovazioni sperimentate nel tepore domestico durante i periodi di riposo invernale producono o meno i vantaggi sperati.

Mia madre ha praticamente collaborato sempre nell’armamento delle reti, passo dopo passo gli è stata sempre accanto quasi fosse un rito religioso. Qualche volta era stata lei a scegliere la tinta da dare alle reti…

Dunque arrivarono a bordo le reti nelle cui maglie erano impigliate tanti e tanti detriti. Solitamente capita così con l’estremità delle reti, quando vengono issate a bordo, strascicano un po’ ed ecco che quanto è nel fondo rimane impigliato.

Mio padre accompagnava l’ingresso a bordo della rete toccandola, di tanto in tanto sporgeva il corpo in avanti per vedere se arrivava qualcosa dalle profondità…

 

se non fosse stato per la tumefazione (botta) al viso, tutto sarebbe sembrato normale. Cominciò ad arrivare a bordo qualche brandello di pesce, massacrato dalle pulci di mare, qualche lisca di merluzzo, poi un bellissimo scorfano di un rosso meraviglioso, la cresta alta e minacciosa, ben insaccato nella rete. Papà le aveva armate bene le sue reti durante i mesi invernali!

L’esperienza maturata in più di mezzo secolo nell’armare i tremagli, lo portavano ormai come una macchina perfetta a calcolare bene gli imbandi da dare alla rete e a regolarli alla perfezione con il resto degli armamenti (lima dei sugheri, piombi, cordami).

Mi fermai dal tirare la rete, ed allargandola in pochi attimi ne liberai da essa l’animale. Era da sempre stata la mia passione smagliare i pesci dalla rete, più le specie erano pericolose più mi appassionavo. Fin da piccolo avevo imparato a toglierli velocemente, gli scorfanetti dalle reti, a volte acchiappandoli per la testa con i denti e facendoli scivolare attraverso le maglie. L’esperienza maturata da giovinetto, mi aveva formato e ora potevo permettermi di toccare in assoluta sicurezza qualsiasi tipo di pesce impigliato.

Erano anni che non andavo a tirare le reti con mio padre. Solo questa particolare occasione mi aveva riportato laddove ero cresciuto. Ora però erano quell’aria fresca sul viso, l’odore del mare e quello forte ed a momenti sgradevole emesso dai fumi di scarico del motore, che mi riportavano prepotentemente indietro nel tempo. Pensavo alle emozioni che mi ero perso in questi anni, guardavo mio padre ferito ma felice nel suo mare, ora capivo meglio il suo impegno nel volere andare a tutti i costi a pescare. Ora ne invidiavo la sua libertà.

Ad un tratto mi accorsi che qualcosa stava cambiando nei suoi movimenti mi sentii certo che poco dopo qualcosa sarebbe accaduto. Guardava fisso verso terra tra le montagne, poi sporgendosi fuori bordo la rete che, salpata, arrivava gocciolando a bordo.

Ricordai quei movimenti, giocai tra me e me scommettendo sulla mia memoria: di li a poco saremmo passati sopra qualche scoglio con le reti, di li a poco la rete con molta probabilità si sarebbe incagliata al fondo. Era proprio quello che quell’indomito e sapiente pescatore voleva. Il salpareti si bloccò un istante, andò sotto sforzo, ci guardammo negli occhi senza dir nulla, poi arrivò un cigolio, era l’atteso segnale… la rete si era incagliata. L’emozione di una rete che si incaglia a profondità elevata, solo chi è pescatore o lo è stato può capirla.

Sono attimi, ma sembrano eterne parentesi riempite di gestualità, di attesa, di speranza, la barca cominciò ad inclinarsi lentamente su un fianco. Ora il salpareti ci restituiva solo pochi centimetri di rete alla volta. Facevo forza con le gambe e le braccia, la barca continuava ad inclinarsi, dagli ombrinali cominciò ad entrare e defluire dell’acqua. Poi finalmente, dopo qualche minuto, come un sollievo, la barca sbandò velocemente dall’altra parte; era il segnale, eravamo riusciti a divincolarci dalla morsa che ci teneva legati a 150 metri di profondità.

Istintivamente e contemporaneamente ci sporgemmo fuori bordo e come ci auguravamo stavolta la rete cominciava a portare su qualcosa di buono. Si vedevano il bianco delle pance dei pesci ammagliati nella rete, che salivano in superficie precedute da bolle d’aria. Ancora più sotto rami di gorgonie strappate dalla rete e poi granchi, rametti di coralli, ancora serrani, scorfani, musdee, una cernia da 3 Kg, poi finalmente tante e tante aragoste una dietro l’altra.

 

Un’orgia di piacere, uno spettacolo unico da togliere il respiro. Come a volerne violare la sua intimità, cercai di scorgere il Guerriero ferito, mi ritrovai a contemplare la forza e la fierezza di un uomo felice. Mi parve di tornare indietro di trent’anni quando lui aveva la mia età e con me piccolino ci avventuravamo a pescare molto fuori, nella secca della Barra.

 

Ricordai come da piccolino mi divertivo con la caratteristica luminosa del Faro di Capo Gallo, due lampi ogni 15 secondi, a come egli stesso mi aveva insegnato a calcolarne i tempi. Io giocando con il fascio luminoso riuscivo a spaccarne al millesimo l’attimo tra un intervallo e un altro. Mi aveva sempre affascinato quel posto, mi ha regalato bellissime ed ineguagliabili emozioni quel faro posto a 40 metri di altezza dal livello del mare e visibile fino a 16 Miglia nautiche.

Mi aveva regalato sempre tanta ispirazione e tanta dolcezza per il mio cuore al punto che osannandone la fascinosa bellezza una notte scrissi.

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