Il capitano Toti Lucido, figlio di pescatore, ci racconta l’emozione di una battuta di pesca, da adulto immerso nei ricordi di bambino. La gioia del ricordo, l’ansia che preced i momenti in sui si salpa la rete, la felicità della battuta di pesca quando la pesca è ricca ed inaspettata. Di seguito il racconto di una battuta di pesca di aragoste nelle parole dello stesso pescatore in barca con il padre Peppino Lucido.
La mia casa dista cento passi dalla scogliera, venti metri ancora e sono sul marciapiede a vermeti “menzi e scogghi” per intenderci; in queste piattaforme naturali, ho trascorso divertendomi fino a stancarmi, le calde giornate estive in compagnia dei miei amici d’infanzia… poi anche due bellissime Lucia e Rosalia, mia cugina, che viveva al nord e tornava al paese solo per qualche mese d’estate. Dunque, dal marciapiede a vermeti mancano poco più di due metri per potermi tuffare in un acqua cristallina, in un azzurro incantevole mare.
Da sempre ogni mattina, quando esco di casa, è per me consuetudine passare dal Piano Levante, è questa la strada più breve per godere subito della visione del mare, è da questa parte che devi passare per vedere il sole sorgere lento sopra Capo Gallo.
Dalla mia camera da letto, di notte, quando la stagione estiva è finita e le macchine diventano rade, del mio mare riesco a sentirne il suo fiero respiro… tante volte una leggera brezza riesce a portare a me il suo gradevole odore…
Una notte di autunno fu il respiro pesante del mare a svegliarmi, qualcosa stava accadendo, in pochi attimi di corsa salii al piano di sopra, svegliai mio padre e corremmo al porto… Salvammo in tempo la nostra barca: strappati gli ormeggi stava schiantandosi nella banchina; quando la barca mossa dalla risacca si avvicinò, con un balzo disperato riuscii a saltarvi a bordo ed assuccando (mettendo in forza) velocemente i cavi di poppa, evitai che la prua della nostra adorata barca si frantumasse nel molo.
Tanti sono i ricordi legati alla nostra barca, tante sono le avventure che potrei raccontare, tanti gli aneddoti sui litigi con i miei fratelli, su come dovevamo ripulire le reti, su come dovevamo immasarle (riporle) nel molo e su come dovevamo poi rimmasarle in barca. Stupide ed interminabili ripicche che accompagnavano sistematicamente le calde ore di una qualsiasi mattinata estiva.
Una volta il mezzano dei miei fratelli esasperato mi lanciò una ciabatta che, mancandomi, come un boomerang andò a colpire in faccia un anziano pescatore che rimase tramortito; poi da forte uomo di mare barcollando tornò a casa. Dopo quel giorno l’abbiamo rivisto imbarazzati ma pisciati dalle risate! Come stirpe (razza) questo pescatore non era certo tra i più blasonati, ma a distanza di tempo in famiglia raccontando questo aneddoto ne manteniamo, a distanza di anni, vivo il ricordo.
Ricordo il mattino delle domeniche quando avevamo la partita di calcio in campionato. Mio padre mi risparmiava la levataccia delle quattro, per evitare che in campo stampiassi (fossi poco reattivo), ma pretendeva che come tre moschettieri fossimo pronti al suo arrivo, per vendere il pesce, pulire le reti, rimetterle in barca.
La domenica, era il giorno preferito da mio padre, quello che si riservava per esibirsi nelle calate più particolari, sporche, faticose e redditizie. Niente scuola la domenica, equipaggio al completo, poteva dunque sbizzarrirsi, dando sfogo alla sua fantasia. Buttava le reti nella zona di pesca giornalmente battuta dai pescherecci a strascico che, non pescando il sabato e la domenica davano anche a noi, senza il pericolo che le reti si rovinassero, la possibilità di calarle in quelle zone che, essendo a quei tempi poco sfruttate risultavano veri e propri paradisi ittici.
Domeniche all’insegna di aragoste, triglie, pagelli, scorfani rossi e merluzzi ma anche di SULI e Denti di cani; arrivavamo alle 12,30 a casa con le mani massacrate; già nella scala venivamo investiti dai meravigliosi ed ineguagliabili odori, che con grande sapienza mamma riusciva a far emanare dalle sue pietanze. Il tempo di una doccia veloce, il prurito dovuto a qualche alga orticante, di indossare la tuta della U.S. Apollo 11 e di un pranzo fatto per tanti anni di una bistecca e di una insalata, insomma, poche ore dopo, eravamo in campo ad onorare con ottimi risultati i colori del nostro paese. Mi viene in mente la scena che ha accompagnato il mio pranzo per tanti anni prima della partita: Mamma se ne fregava altamente che io avessi la partita…”Avi di stà matina chi cuociu!” con questa frase suonava la carica inseguendomi in giro per il tavolo con il suo brociolone al sugo infilzato nella forchetta, voleva a forza farmelo mangiare: “Manciti chistu ca fai un gol” mi diceva. Una domenica quasi pregandomi in ginocchio mi convinsi a mangiarne, segnai un bel goal ma dopo dovetti uscire dal campo di corsa per andare a vomitare.
Tanti sono i ricordi legati agli amici, a quando venivano al porto nell’intento di portarci via dal lavoro e poi invece rimanevano a trascorrere le ore più assolate del giorno con noi, a liberare le nostre reti da alghe, detriti e lische di pesci. Inevitabilmente anche loro venivano coinvolti nella guerra, parlo della guerra a lanci di oloturie (minchie di mare), che era diventata quotidiana.
Noi e qualche altra barca di aragoste, pescavamo quelle piccole color miele in profondità ma anche tantissime baddri marini; gli altri, quelli che pescavano a bassa profondità, avevano a disposizione quelle grosse e marrone scuro di basso fondale: vere e proprie armi belliche! In alcuni momenti era una pioggia continua, un divertimento infinito. Intanto però le mani, le nostre mani di studentelli prima delle medie, poi delle superiori, che avrebbero dovuto essere ben tenute al calduccio delle tasche, non si fermavano mai di lavorare.
All’una spaccata mamma apparecchiava e noi dovevamo essere pronti a godere della sua arte culinaria…
Uno dei pochi pregi che mi riconosco è quello di avere buona memoria e quindi ricordo perfettamente tutto fin da quando ero piccolissimo. Legato al mondo del mare ho mantenuto vivo nella memoria un ricordo che spero però di essere all’altezza nel descriverlo. Racconterò di quella volta che papà cadendo, aveva battuto maldestramente il viso, inciampando accidentalmente in barca, mentre si preparava alle 5 del mattino ad andare a tirare le sue reti. Non si era però arreso; subito dopo, tornando a casa, aveva preso del ghiaccio formato dentro una bottiglia di plastica che solitamente utilizzava per abbassare la temperatura del recipiente e mantenere ben vive le aragoste pescate, poggiandola saltuariamente nella zona colpita ne evitava il gonfiore e ne alleviava il dolore. Poi era sceso giù per le scale, con la lentezza di un guerriero ferito ma mai domo, girando la chiave già inserita nella toppa, aveva aperto la mia porta di casa e percorso qualche metro del corridoio che portava alla mia camera da letto, chiamandomi piano “Totouh” mi aveva svegliato, pochi secondi, forse attimi, erano bastati a farmi tornare indietro negli anni a quando piccolino con la nostra prima e vecchia barca con cui mi portava a pescare. Poi mi vennero presto in mente il ricordo dei suoi passi sofferti e ogni volta più pesanti con il trascorrere degli anni, di quando veniva ai nostri letti, prima di partire per imbarcarsi sulle petroliere e ci baciava sfiorandoci appena, per non svegliarci… quanti Natali e Capodanni lontani da noi… Ora però, mi stava chiedendo con voce ferma e patriarcale di accompagnarlo, di andare in barca con lui, a tirare le reti. Capii subito che era successo qualcosa poiché era stato sempre restio a condividere con altri le sue giornate di pesca, solo i nipoti della Sardegna qualche volta che erano venuti in vacanza da noi riuscivano ad intenerirlo. Balzai dal letto in un attimo e pochi minuti dopo indossata una tuta e delle scarpe sportive, avevamo lasciato la porta di casa alle spalle. Arrivammo dunque passo dopo passo al porto, salimmo in barca con differenti movenze. Saltando veloce nel castelletto tirai la cima di ormeggio fino ad accostare la prua al molo, consentendo a lui, che nel frattempo si era seduto nel ciglio banchina, di salire comodamente a bordo. Il motore partì dopo mezzo giro di chiave e mollati gli ormeggi mi trovai con la barra del timone tra le gambe in piedi sulla poppa. Appena fuori dell’imboccatura chiesi con lo sguardo alla sagoma che avevo di fronte, dove avesse buttato la sera prima le sue reti, un cenno del capo, inequivocabile per me, mi portò a mettere la prua verso tramontana. Nell’Area Marina Protetta passammo appena fuori della zona A, di riserva integrale, lasciandoci a sinistra le boe che ne delimitano l’area; man mano che ci allontanavamo dall’ Isolotto il buio andava via via lasciando il posto al chiarore del mattino. I gabbiani che stanziano normalmente a largo dell’Isolotto , avevano iniziato a volteggiare , ora sfiorando la superficie del mare ora alzandosi alti nel cielo, per poi ripiombare sulla superficie non appena avvistavano qualcosa da mangiare. Navigammo per una ventina di minuti in quel tratto di mare tanto familiare a noi… istintivamente, ad un certo punto, mi girai all’indietro guardando tra le montagne e mi ricordai di un doppio allineamento che papà mi aveva insegnato ancora piccolissimo.Cercai di portarmi con precisione in quel punto, qualche dopo minuto e sotto di noi, ad una profondità di 90 metri ci trovammo laddove dal 13 ottobre 1942 giace il relitto della nave da carico Loreto della flotta Lauro, requisito dalla Marina Militare Italiana durante la seconda Guerra Mondiale ed affondato causa siluramento dal sommergibile britannico UNRUFFLED . Da uomo di mare ho sempre avuto rispetto per quel relitto e per le vittime che naufragarono con esso. Poi, dai lenti movimenti di mio padre, capii che eravamo ormai prossimi alla destinazione. Mi adoperai per cercare di scorgere uno dei segnali delle reti e, ad un centinaio di metri, ebbi l’impressione di intravedere il sughero bianco tipico dei segnali di pesca.
Accostai pochi gradi a dritta, bastarono per capire che quel segnale che adesso ci stava dritto di prua era il nostro. Quando arrivammo a pochi metri mio padre posò per un attimo la bottiglia ghiacciata che aveva in mano, spense il motore giusto il tempo per ingranare il verricello, entrò nella cabina dell’apparato motore e con maestria fece si che la cinghia entrasse nella piccola puleggia-alloggio del motore, l’altra era già inserita nella puleggia grande che attraverso un lungo asse ne trasmetteva il moto al salpareti. Infatti, quando il motore fu rimesso in moto contemporaneamente il piatto superiore che componeva il salpareti cominciò a girare lentamente, tirando una fune e mettendola in forza abbassò una puleggia piccolina sulla cinghia mettendola in tensione. Il salpareti ora girava regolarmente, eravamo dunque quasi pronti: indossai il falaro (grembiule) di plastica per evitare di bagnarmi. Da un cenno con il capo capì che mio padre voleva scandagliare la corrente.
Mi avvicinai allora con la barca, sostando a pochi metri dai segnali che mostravano chiaramente la presenza di una forte corrente di ponente, tirare da questa estremità levante avrebbe sicuramente causato grossi danneggiamenti alla rete. Optammo allora di andare a tirare dall’estremità di ponente in modo da sfruttare in poppa, in aiuto, la corrente esistente. Arrivammo dunque nell’altro segnale, dopo averlo agganciato iniziammo a tirare il cavo alla cui estremità preceduta da una mazzara (pietra) iniziavano le reti. Ormai era l’alba, potevo vedere bene come la caduta avesse fortemente contuso e deformato il viso di mio padre, ora però era come se da quella sagoma cominciasse pian piano ad uscire fuori l’uomo, il pescatore. Sembrava improvvisamente fottersene delle sue condizioni, era arrivato laddove voleva, a lui ora interessava solamente tirare le reti, si era voluto spingere ferito in quel punto, in quelle condizioni per pescare e niente e nessuno poteva ora impedirglielo. Sembrava avesse rimosso tutto dalla sua mente, aveva lasciato tutto alle spalle, lui era dove aveva sempre vissuto, dove aveva educato al lavoro e fatto crescere i suoi figli, dove aveva costruito la sua casa, le sue certezze… lui era nel suo mare.
Malgrado avesse messo il ghiaccio, il suo viso andava sfigurandosi e la tumefazione ora era meglio visibile, illuminata da un sole sorgente. Mentre tiravo passo dopo passo gli ottanta braccia di cima con le spalle al mare, lui si era piazzato a poppavia, alla mia destra accanto al miolo (…….); se fosse arrivato qualche pesce pregiato o qualche aragosta l’avrebbe aiutata a passare dolcemente, evitando di scafazzarla, dovendo la rete per forza passare attraverso quella grossa puleggia. Dunque arrivarono a bordo le reti nelle cui maglie erano impigliate tanti e tanti detriti. Solitamente capita così con l’estremità delle reti, nel momento che vengono issate a bordo , strascicano un po’ ed ecco che quanto è adagiato nel fondo rimane impigliato.